Questo post fa parte di una serie dedicata alla figura del banchiere centrale nell'economia moderna.
Qui propongo una caricatura di Mario Draghi che realizzai nell'estate del 2012 dopo aver approfondito il significato dell'esternazione del neo presidente della Banca centrale europea (BCE) a ridosso delll'inasprimento della crisi economico finanaziaria nel 2011 e le sue implicazioni in termini di politica economica.
L'esternazione di Mario Draghi del 27 luglio del 2012 fu:
“Within our mandate, the ECB is ready to do whatever
it takes to preserve the euro, and believe me, it will be enough.” .....
“To the extent that the size of these sovereign
premia hamper the functioning of the monetary-policy-transmission
channel, they come within our mandate.”
In quel momento storico l'oggetto dell'attenzione di gran parte dei media era lo spread: la differenza tra i tassi sui titoli dell'Unione monetaria europea e il tasso applicato ai titoli della Germania. Tale differenza tende ad aumentare quando il mercato inizia a contemplare l'eventualità di una caduta del valore dei titoli della Periferia (per periferia si intende i paesi mediterranei).
In buona sostanza, la parola spread rappresentava (e rappresenta) una situazione tale per cui quando
un governo, un'azienda o un privato della così detta Periferia si recava (e si reca) presso i
mercati finanziari internazionali per ottenere del credito questo si
vede corrispondere condizioni peggiori e costi più elevati rispetto a quelli del Centro. Dato il cattivo funzionamento della moneta unica europea e dell'Eurozona tale differenza divenne insostenibile.
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Mario Draghi: “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever
it takes to preserve the euro, and believe me, it will be enough.”
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Per meglio comprendere il significato delle parole di Mario Draghi è necessario almeno accennare al contesto macroeconomico del 2011 il quale evidenziava in modo inequivolcabile i problemi di funzionamento della moneta unica europea, resi ancor più palesi dalla crisi del sistema finanziario mondiale culminata con il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 che comportò una paralisi del mercato interbancario, una forte contrazione nella circolazione del credito per l'economia reale a livello mondiale ed il conseguente inceppamento dell'incongruente meccanismo di flussi finanziari tra il Centro e la Periferia dell'Eurozona.
Oggi è dato per assodato che la crisi del credito nata nel settore immobiliare degli Stati Uniti e che culminò appunto nel fallimento Lehman Brothers fu un acceleratore della crisi dell'euro e non la causa di natura virale.
Attenendosi ai dati di fatto e senza mettere in discussione per il momento l'orientamento terriibilmente oligarchico se non neoaristocratico del processo di globalizzazione in atto, lo scoppio della bolla immobiliare statunitense avvenne dopo anni di costante crescita economica caratterizzati da un continuo aumento dei valori immobiliari che spinsero gli istituti finanziari a concedere credito con grado di accessibilità crescente. Dinnanzi ai primi segnali di rallentamento dell'economia, i finanziatori si trovarono con un numero crescente di debitori che non erano in grado di far fronte ai loro impegni. Fallita Lehman Brothers, tutte le principali istituzioni creditizie mondiali si trovarono improvvisamente a rischio: nessuno era più in grado di valutare l'affidabilità dell'altro. Il blocco del credito fece crollare di conseguenza: produzione, ordini, consumi e deteriorò i patrimoni delle aziende.
Per contrastare l'effetto della "crisi Lehman" le istituzioni americane, in primis, la Federal Reserve si adoperarono attraverso iniezioni di liquidità a favore del circuito bancario statunitense e l'incremento dei deficit pubblici (il famoso "bazooka" o più semplicemente l'attivazione di meccanismi naturali per uno Stato che può contare sulla sovranità monetaria come gli Stati Uniti).
La così detta crisi dell'euro è un fenomeno ben distinto dalla "crisi Lehman" la quale ne ha di fatto "solamente" acuito gli effetti data la diminuzione della capacità di consumo della Periferia e la conseguente diminuzione del suo deficit commerciale.
E' ormai un dato oggettivamente incontrovertibile e non solo una tesi diffusa tra gli economisti eterodossi e parte degli economisti del mainstream che la "crisi dell'euro" sia stata innescata dal deficit delle partite correnti che producono un accumulo di indebitamento verso l'estero e di come questo aspetto fondamentale rispecchi una costruzione quanto meno discutibile se non irragionevole (qui solo un piccolo esempio) fondata sul paradigma della scarsità e su un esasperato peso attribuito alle esportazioni nonché su un apparente atto di fede nei confronti della moneta unica nonostante questa si sia rivelata un fattore di grave rigidità come previsto da molte fonti autorevoli.
Nel 2002 quando l'euro venne introdotto fisicamente, la conversione delle monete nazionali nella moneta unica avvenne nel rispetto dei cambi di mercato i quali riflettevano di fatto la realtà economica dei vari paesi ed infatti in ogni paese le esportazioni corrispondevano più o meno alle importazioni; nel corso del tempo tale fenomeno è mutato in modo critico.
Detto che la bilancia delle partite correnti è costituita da:
[(le esportazioni di beni e servizi) + (i redditi attivi da capitale) + (i trasferimenti attivi)] - [(le importazioni di beni e servizi) + i redditi passivi da capitale + i trasferimenti passivi)]
Stante la rigidità intrinseca all'adozione della moneta unica che non consente ai paesi in deficit di liberare la loro capacità produttiva, un paese che presenta un saldo attivo accumula attività patrimoniali, soprattutto crediti finanziari, viceversa chi ha un saldo passivo accumula per lo più debiti. Il meccanismo attraverso il quale si realizza ciò si chiama Target 2, i saldi del target 2 sono dei prestiti tra banche centrali nazionali (per esempio la Bundesbank presta a Banca d'Italia ecc...).
Guardando all'Eurozona (la parte di Unione Europea che ad oggi ha adottato l'euro come moneta) è un'evidenza empirica il fatto che nel corso degli anni il Centro ed in particolare la Germania abbiano accumulato rilevanti eccedenze mentre la Periferia ed in particolare i così detti PIIGS, ma anche la Francia un notevole deficit.
Va da sé che un'area economica costituita da regioni sistematicamente in surplus nei conti con l'estero e altre sistematicamente in deficit sarà caratterizzata da un continuo flusso finanziario dalle prime verso le seconde. I paesi in surplus prestano a quelli in deficit i soldi per mantenere un eccesso di consumo e ai soggetti finanziatori un eccesso di produzione.
Ciò avviene appunto attraverso un meccanismo automatico che è il sistema dei prestiti "target 2" il che stante la situazione attuale di recessione economica e la spirale deflattiva in regime di austerità mette a rischio i creditori su tutti la stessa Bundesbank proprio in ragione di come funziona la moneta unica dove i paesi in surplus sono obbligati a finanziare automaticamente i paesi in deficit.
Infatti deve essere molto chiaro come uno dei cardini del funzionamento della moneta unica sia proprio quello dei saldi target 2 dove appunto i deficit esteri vengono finanziati automaticamente tramite i saldi debitori presso la BCE.
Anche a guardarla dal punto di vista dei creditori, questa situzione, solo ad uno sguardo miope può sembrare positiva, infatti, mantendo un sistema di cambi flessibili, la rivalutazione del cambio avrebbe significato, per la maggior parte della popolazione tedesca, la possibilità di tradurre la loro conclamanta maggior efficienza produttiva in consumi e investimenti concreti che in parte avrebbero alimentato la domanda di beni e servizi prodotti dai partner generando un naturale riequilibrio dei saldi commerciali, anziché un accumulo di crediti verso la Periferia via via sempre più rischiosi anche a fronte dell'imposizione delle politiche di austerità che ne congelano il potenziale produttivo.
Al riguardo va detto che comunque il meccanismo dei prestiti Centro Periferia è un automatismo mentre l'imposizione della austerità una scelta politica e non una conseguenza.
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Mario Draghi e Jens Weidmann (presidente della BuBa) - character design study - rough sketch |
Alla prova dei fatti la carica puntiforme della crisi dell'Eurozona non è il peggiormento della finanza pubblica (altrimenti detto Debito pubblico e più correttamente detto Debito dello Stato) basti notare come le politiche di austerità attuate dalla periferia e in modo particolarmente acuto dall'Italia nel corso del governo tecnico di Mario Monti abbiano apportato un "miglioramento" dei conti pubblici a fronte di una notevole caduta del PIL e dei consumi interni e quindi anche delle importazioni; inoltre al riguardo, si era già avuta evidenza della fallacia di tali politiche laddove queste vennero applicate in Irlanda e in Spagna dove il rapporto Debito/Pil era, nel 2007, rispettivamente del 25% e del 36,3% e quindi ampiamente dentro i parametri richiesti. Al riguardo torneremo su questo argomento per evidenziare le caretteristiche del "mantra ipnopedico" che caratterizza la fabula del debito pubblico come causa della crisi e come questa anche ad oggi, soprattutto attraverso i media mainstream, non perda di efficacia a fronte dell'evidenza dei fatti.
Anche guardando alla tanto citata produttività fisica del lavoro e alla retribuzione lorda dei lavoratori, dall'entrata in vigore della moneta unica, si nota come la Germania abbia di fatto attuato politiche di contenimento salariale che hanno prodotto una crescita del costo del lavoro inferiore alla produttività fisica. Ciò è avvenuto soprattutto nel periodo 1999-2005. Così facendo la Germania e gli altri paesi che gravitavano nell'ex area Marco hanno tenuto sotto controllo in maniera più efficace il costo del lavoro rispetto ai paesi mediterranei, confermando quella che è stata sempre una loro peculiarità, non a caso infatti le loro valute tendevano a rivalutarsi rispetto alla lira, la peseta, il franco.
La differenza sostanziale è che con l'adozione della moneta unica è venuto meno il preziosissimo meccanismo della flessibilità dei cambi che permetteva di riallineare la competitività dei vari paesi e di evitare scompesi nei flussi commerciali. I cambi flessibili infatti per definizione oscillavano ma la misura tendenziale della rivalutazione era tale che la svalutazione poteva essere stimata in modo affidabile e tale che la variazione tendenziale fosse quella necessaria per tenere invariato il costo del lavoro per unità di prodotto dei vari paesi. La flessibilità dei cambi era e sarebbe un meccanismo stabilizzatore.
Dall'adozione della moneta unica invece accade un fenomeno molto preciso: il Centro guadagna competitività perché aumenta la produttività e il costo del lavoro per unità di prodotto aumenta in maniera inferiore. Contemporaneamente lo stesso Centro accumula surplus perché le vendite superano gli acquisti e nel contempo accumula anche eccedenze che destina per finanziare la Periferia.
Il tutto mentre la Periferia perde competitività e produzione non per mancanza di voglia di lavorare ma per via della minor convenienza a produrre in loco. Alla diminuzione di reddito però non corrisponde una diminuzione dei consumi perché questi vengono finanziati dai prestiti del Centro. In questo modo il Centro trova un impiego per le sue eccedenze garantendo la continuità della domanda nei mercati di sbocco della Periferia.
Il problema è che un tale meccanismo procede incessantemente finché l'ammontare dei crediti diviene tale da mettere in dubbio la solvibilità dei debitori. Infatti i PIIGS si contraddistinguono per livelli di debito estero (non prevalentemente pubblico) elevati rispetto alla loro capacità di produzione e di crescita da renderli difficilmente rimborsabili o da essere oggetto di rifinanziamento.
Questi sono i presupposti per una nuova crisi del credito con epicentro questa volta nell'Eurozona.
L'aumento degli spread tra i tassi di interesse del Centro e della Periferia e quindi il maggior peso del costo del denaro per la Periferia è andato di pari passo con la perdita di competitività della stessa e con il suo conseguente accumulo del debito estero.
Finanziare la Periferia, soprattutto dal 2008, diviene un'operazione troppo rischiosa perché è aumentato il dubbio circa l'insolvenza delle famiglie, delle Imprese e degli Stati dell'Europa del Sud.
Va detto che tutto il ragionamento fin qui sviluppato si avvale delle categorie del pensiero neoclassico che è riusciuto a mettere lo Stato sullo stesso piano di una famiglia, rendendo possibile un accostamento che fino a qualche decennio fa era impossibile e che sarebbe auspicabile tornasse tale. Infatti uno Stato il cui Debito è denominato nella sua moneta sovrana può sempre evitare l'insolvenza emettendo la quantità di moneta necessaria per rimborsare il proprio debito. Tale qualità dello Stato a moneta sovrana non è esente da danni potenziali poiché oltre certi limiti, la circolazione di moneta diviene inflazionistica, ma questo rischio non sussiste quando l'economia di un paese è caratterizzata da alti livelli di disoccupazione.
Ad oggi anche analizzando la crisi economica avvalendoci delle categorie del pensiero mainstream ci si dovrebbe esser finalmente liberati dello spettro dell'inflazione poichè si dovrebbe dare per assodato che un aumento della circolazione monetaria è potenzialmente generatrice di inflazione se e solo se questa serve per sostenere la domanda di beni e servizi tale che la domanda sia maggiore della capacità produttiva del sistema economico stesso.
Basti pensare al caso di paesi come gli USA, il Regno Unito, il Giappone (ma anche l'Eurozona nel suo complesso) dove la crisi del 2008 ha portato i loro livelli di attività economica su livelli molto inferiori al loro potenziale ed infatti l'enorme emissione di moneta da parte delle rispettive banche centrali per salvare soprattutto il settore bancario ha visto l'inflazione e i tassi di interesse sul debito pubblico attestarsi su valori bassissimi.
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Bernanke_Q.E._US Government monetary sovereignt_something arrives for real economy recovery |
Il caso della Periferia dell'Eurozona è completamente diverso non avendo la facoltà di determinare l'ammontanre di moneta da emettere, infatti la BCE non prevede nel suo statuto la possibilità di intervenire per evitare l'insolvenza del debito pubblico di uno Stato membro e/o il fallimento di grandi banche o imprese too big to fail.
Dopo l'affermazione di Draghi dell'ottobre del 2011 la BCE è intervenuta di fatto ma in maniera solo parziale e non risolutiva, attuando le famose "misure non convenzionali" acquistando i bond dei paesi in difficoltà per circa 1.000 miliardi in modo da farne scendere il prezzo e porre fine al rischio default incorporato negli spread sui tassi di interesse (a fronte dei 3.500 mila miliardi di titoli di Stato e altri titoli di debito comprati dalla FED dal 2009). Di fatto la BCE ha "gonfiato" il proprio bilancio concedendo prestiti al circuito bancario dell'eurozona, il che è sostanzialmente molto diverso dall'acquistare bond a fronte di una strategia politca che opta per un aumento della spesa pubblica per rilanciare l'economia reale, poiché sebbene si vada comunque a creare denaro, il fatto di prestarlo alle banche non necessariamente si traduce in concessione di credito all'economia reale; in definitiva analizzando l'evento a posteriori questo non ha dato sicurezze agli investitori e condizionando i debitori a politiche di austerità si ha avuto l'effetto di penalizzare enormemente la domanda, la produzione e l'occupazione nei paesi in difficoltà, alimentando una spirale deflattiva artificialmente imposta.
Quindi, in un primo momento l'affermazione di Mario Draghi sembrava rompere con tutte le decisioni prese
dalla Bce in materia monetaria che da statuto sottolineavano l'estrema
priorità della lotta all'inflazione al cospetto dell'obiettivo
dello sviluppo, per accogliere le pressioni della Fed e degli Usa a sostenere le banche senza
intervenire sui meccanismi finanziari che hanno generato e continuano
a generare titoli tossici e potenziale inflazionistico.
Sebbene la Bce
sia intervenuta nel mercato dei titoli dei debiti pubblici per
ovviare alla speculazione al ribasso nei confronti dei paesi della Periferia ponendo fine al tormento dell'innalzamento
degli spread, di fatto però l'acquisto di grossi quantitativi di titoli di Stato italiani, spagnoli, greci per sostenerne i prezzi rischia di creare una condizione simile a quella della transfer union (la mezzogiornificazione del Sud Europa). Inoltre le operazioni LTRO (circa mille miliardi di euro) che hanno visto la BCE erogare prestiti a tre anni al tasso dell'1% al sistema bancario europeo prendendo a garanzia i titoli di Stato dei vari paesi ha avuto l'esito di vedere una gran massa di liquidità intrappolata in deposito presso la BCE per la parte non necessaria a far fronte agli impegni in scadenza anziché esser destinata all'espansione del credito resa impossibili dalle austerità che deteriorano i consumi, i redditi, il risparmio, il valore degli immobili che sono la base della qualità del credito di aziende e privati.
Da una parte si è iniettata liquidità nel circuito interbancario senza imporre una netta
separazione tra i soggetti preposti all'attività bancaria
tradizionale e quelli dedicati all'attività bancaria di
investimento facendo sì che le scelte di impiego ricadessero sistematicamente su investimenti di tipo speculativo a fronte dei supposti maggiori rendimenti, dall'altra si è chiesto agli Stati di colmare i deficit di competitività cumulati negli anni in tempi brevi attraverso l'aumento delle tasse, la riduzione della spesa pubblica, la diminuzione delle prestazioni pensionistiche e sanitarie, la riforma della legislazione sul lavoro, diminuendo il costo del lavoro che comporta una diminuzione del reddito delle persone, una diminuzione dei consumi della capacità di spesa delle persone, del prezzo degli immobili; il che rappresenta un problema per il sistema bancario che essendo pro ciclico ha difficoltà a prestare a soggetti che soffrono la riduzione del loro reddito lordo, ciò avvia una spirale viziosa: diminuiscono i redditi e i consumi, aumentano le tasse ma non il gettito e con un PIL che diminuisce, l'incidenza del debito pubblico aumenta.
Alla prova dei fatti gli interventi non convenzionali della BCE per contrastare la crisi si sono rivelati inadeguati e non risolutivi della crisi.