La raccolta si apre con il "memorandum" sul New Italian Epic, uno sguardo retrospettivo (1993-2008) che descrive come molti romanzi italiani ("oggetti narrativi non identificati") abbiano iniziato una sorta di dialogo tra loro in virtù di un comune sentire, un preciso lavoro sulla lingua, un'etica della narrazione che parte dalla consapevolezza dello sguardo obliquo sulla realtà e sugli eventi storici.
Seguono poi due saggi che esplorano la dimensione sociale e politica di questo nuovo modo di approcciarsi al mestiere del raccontastorie che viene descritto come una pratica di resistenza, perché "l'unica alternativa per non subire una storia è di raccontare mille storie alternative".
Sebbene, da un certo punto di vista sia passato molto tempo da quando il libro è uscito e sebbene, personalmente trovo che le fondamenta della riflessione proposta dai Wu Ming sia molto coerente e stimolante, pur non concordando su molti punti in cui il ragionamento di fondo si ramifica.
Di seguito, una parte del secondo intervento del libro:
- Noi dobbiamo essere i genitori di Wu Ming 1 – Qualcosa di nuovo
sotto il sole.
(Pag. 118-124)
"Ogni atto artistico e letterario, ogni
opera d'arte. Ogni romanzo reca i segni di ciò che accade intorno,
in un modo o nell'altro. I tempi in cui viviamo sono condizionati
dalla morte dei fondatori, dei “capostipiti”, dai genitori che se
ne sono andati lasciandoci con problemi enormi. Noi siamo gli eredi
delle loro allucinazioni, ormai ci rendiamo conto che la crescita, lo
sviluppo, il consumismo, il prodotto interno lordo, tutto questo ci
fa correre su un binario morto, e ci chiediamo se lungo la corsa
vedremo uno scambio, e chi scenderà ad azionare la leva.
Stiamo cercando di capire che fare, ma
i nostri pensieri sono ancora prigionieri dei vecchi frames
concettuali, il che significa che anche le nostre parole sono
prigioniere. Pensiamo ai movimenti che chiedono un calo di produzione
e consumi. Chiamano questo processo decrescita. Decrescita non è
nemmeno un antonimo, è una mera negazione del concetto opposto, ed
in effetti ogni volta che diciamo “decrescita” diciamo anche
“crescita”, e “crescita” è sentita come una parola buona,
d'istinto la associamo a cose e positive, processi che sono necessari
e benigni, come la crescita dei nostri figli, o la crescita di piante
che possiamo mangiare. “Decrescita” non è una parola efficace,
non funziona.
I nostri pensieri e vocaboli sono
ancora prigionieri. Per anni abbiamo espresso i concetti in cui credevamo
semplicemente aggiungendo prefissi come de- o post- (per esempio
“postmoderno”) ai concetti in cui credevamo più. Sapevamo
soltanto di essere post-qualcosa.
.....
La letteratura postmodernista si è a
lungo concentrata sui “postumi” seguiti alla sbornia del moderno.
Gli autori hanno sviluppato un tipo di ironia che all'inizio aveva un
valore critico, e io sono contento che quei libri siano stati
scritti, amo alcune di quelle opere, penso che dobbiamo tenerci il
buono e portarcelo appresso lungo la via, scartando quello che non ci
serve più; oppure se preferite un'altra metafora, dobbiamo
ricostruire su quelle fondamenta, ma per ricostruirci sopra dobbiamo
prima demolire la casa squinternata che c'è adesso.
Il problema del postmodernismo è che
ha generato un esercito di seguaci e imitatori, e presto si è
ubriacato di sé stesso, si è intossicato della propria ironia, del
proprio sarcasmo e disincanto. L'ironia si è fatta sempre più
fredda e anaffettiva, il che era perfetto per il nuovo spirito dei
tempi: il disincanto ha invaso e impregnato l'intero paesaggio
artistico e mediatico, finché ad un certo punto, probabilmente negli
anni Ottanta, è diventato il sentimento dominante della cultura
occidentale. Nulla andava più preso sul serio. Se prendevi qualcosa
sul serio facevi la figura del seccatore.
Vorrei citare lo scomparso David Foster
Wallace. Questo è uno stralcio da una famosa, classica intervista
…...
Questi ultimi anni dell'era postmoderna
mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi
genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici
e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne
è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel
dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più
chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne
altre e le cose cominciano a rompersi, a rovesciarsi e ci sono
bruciature di sigarette sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è
anche casa tua, così piano piano cominci a desiderare che i tuoi
genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo.... Non è
una similitudine perfetta, ma è come sento la mia generazione di
scrittori intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre
del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel
portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L'opera di
parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata
importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può
compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati
orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando
che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a
disagio, voglio dire: c'è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo,
delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e
paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci
rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e
che noi dovremo essere i genitori.
Da quell'intervista sono passati
quindici lunghi anni, Wallace non è più tra noi e finalmente
capiamo quanto avesse ragione. Noi dobbiamo essere i genitori, i
capostipiti, i nuovi fondatori. Abbiamo bisogno di riappropriarci di
un senso del futuro, perché sotto il sole sta accadendo qualcosa di
radicalmente nuovo. È un pericolo senza precedenti, è un grosso
problema e il disincanto non è la soluzione migliore.
A mio avviso il dispotismo dell'ironia
ha prodotto una sindrome sociale affine all'asimbolia del dolore.
L'asimbolia del dolore è una sindrome neurologica causata da un
danno alla corteccia insulare del cervello. Non rispondi al dolore
in modo emotivo, o dai la risposta emotiva sbagliata: ti metti a
ridere.
Noi ridiamo perché la risata è utile
dal punto di vista dell'evoluzione. Ridere a che fare con il sollievo
dopo un falso allarme. Quando qualcuno ti racconta una barzelletta,
la tensione cresce e sei sempre più curioso, vuoi sapere come va a
finire. Le migliori barzellette ti tengono all'erta per quello che
sembra essere un tempo lunghissimo, e il tuo cervello si fa
sospettoso, e alla fine ti trovi sulla difensiva, ma poi la battuta
finale dà alla storia una torsione inaspettata, la tensione si
scarica e ridi.
È anche il motivo per cui il solletico
fa ridere: all'improvviso qualcuno fa per toccarti, istantaneamente
ti metti sulla difensiva, infatti irrigidisci i muscoli, ma poi
quella persona non ti fa davvero male, si limita a toccarti e
stimolarti in un punto insolito, e allora il tuo cervello dice: “era
un falso allarme!”, e ti metti a ridere.
Una risata segnala che è tutto a
posto, significa: “Non c'è da preoccuparsi”. È probabile che il
ridere sia evoluto da un verso ritmato che i nostri antenati
emettevano dopo un falso allarme. Il resto del branco lo udiva e
tutti si sentivano sollevati: non c'era bisogno di fuggire o di
combattere. Ovviamente, quando il pericolo era reale e qualcuno o
qualcosa procurava autentico dolore, il cervello dava la corretta
risposta emotiva, non c'era sollievo, nessuno rideva, tutti fuggivano
o combattevano.
Ma quando soffri di asimbolia del
dolore, quella parte del cervello non funziona più, il circuito non
si chiude, niente ti dice che questa volta è vero, che non si tratta
di un falso allarme, e finisce che dài la risposta emotiva
sbagliata. Ti sfondo la faccia a calci, e tu ridi.
Negli anni Ottanta e Novanta una gran
parte della cultura occidentale ha iniziato a confondere dolore e
solletico. Pian piano abbiamo perso la facoltà di distinguere un
dolore vero da uno falso: sentivamo o eravamo testimoni di grandi
dolori, e reagivamo ridacchiando. L'ironia era ovunque. Nel frattempo
era caduto il muro di Berlino, l'Occidente aveva vinto e c'era
persino che era finita al storia, e durante gli anni Novanta tutti
ridacchiarono ancora di più. Certo, non nell'ex Iugoslavia o in
Ruanda, ma nel cuore dell'impero molte persone, soprattutto gli
artisti, erano molto cool e ironiche e sghignazzanti e intente a
farsi l'occhiolino a vicenda.
I nostri compagni umani sono
neuralmente programmati per associare le risate ai falsi allarmi,
quindi conclusero che non c'era pericolo...
… poi scoppiò la bolla della
cosiddetta “New Economy”, e subito dopo ci fu l'11 settembre, poi
la cosiddetta “Guerra al Terrore” e l'invasione in Iraq, poi
arrivarono i bombaroli kamikaze a Madrid e nel Tube di Londra, e
adesso l'economia globale sta franando, ma in molti continuano a non
capire quanto la situazione sia pericolosa, e intanto il ghiaccio dei
poli si scioglie, il petrolio sta arrivando al picco di estrazione
prima del previsto, e si stanno esaurendo le scorte di metalli, nel
giro di pochi decenni niente più rame, niente più ferro, niente più
cadmio … .
E' chiaro che essendo io un romanziere
e amando la letteratura (le due cose non vanno sempre insieme), mi
interessa, vedere come la mia professione possa evolversi di fronte a
questi pericoli. Ciò che mi preme è trovare nella letteratura di
oggi un diverso approccio etico allo scrivere, oltre il disincanto di
ieri. Una piena assunzione di responsabilità difronte a quel che
accade su scala planetaria. Ed essendo un romanziere italiano, sono
ancora più interessato a vedere cosa accade nella letteratura di
quel paese. Si comincia sempre da dove ci si trova, e l'Italia è
sempre un posto interessante da cui cominciare, un notevole
laboratorio (tanto per usare un eufemismo). Di recente ho trovato
molti segnali interessanti nella letteratura italiana, ne ho scritto
e ne ho discusso, è in corso un dibattito ed è per questo che sono
qui.
In Italia si usa di frequente
un'espressione: “l'anomalia italiana”. Vi sono serie ragioni
storiche per cui l'Italia è così diversa dal resto d'Europa e la
logica della vita sociale appare impenetrabile o addirittura
inesistente. Farò conto che tutti in questa sala siano al corrente
di tali ragioni, o almeno alcune. C'è di mezzo la Guerra fredda,
eccetera. Diciamo solo che dopo la caduta del Muro per l'Italia
iniziò una fase tumultuosa che va avanti ancora oggi. Nel 1993
crollò il vecchio establishment politico, i più grandi partiti si
dissolsero e vi fu un improvviso liberarsi di energie
incontrollabili.
Nemmeno nei più scatenati sogni ad
occhi aperti la sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta aveva
previsto alcunché del genere, anche se l'esito è parso più simile
a una controrivoluzione: da quei giorni lo spettro politico della
società italiana si è spostato sempre più a destra."
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