venerdì 9 gennaio 2015

UNO SPUNTO DI RIFLESSIONE DA NEW ITALIAN EPIC

"New Italian Epic - letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro" è un libro scritto dai Wu Ming e pubblicato nel 2009. 
La raccolta si apre con il "memorandum" sul New Italian Epic, uno sguardo retrospettivo (1993-2008) che descrive come molti romanzi italiani ("oggetti narrativi non identificati") abbiano iniziato una sorta di dialogo tra loro in virtù di un comune sentire, un preciso lavoro sulla lingua, un'etica della narrazione che parte dalla consapevolezza dello sguardo obliquo sulla realtà e sugli eventi storici.
Seguono poi due saggi che esplorano la dimensione sociale e politica di questo nuovo modo di approcciarsi al mestiere del raccontastorie che viene descritto come una pratica di resistenza, perché "l'unica alternativa per non subire una storia è di raccontare mille storie alternative".

Sebbene, da un certo punto di vista sia passato molto tempo da quando il libro è uscito e sebbene, personalmente trovo che le fondamenta della riflessione proposta dai Wu Ming sia molto coerente e stimolante, pur non concordando su molti punti in cui il ragionamento di fondo si ramifica.

Di seguito, una parte del secondo intervento del libro: 
- Noi dobbiamo essere i genitori di Wu Ming 1 – Qualcosa di nuovo sotto il sole. 
(Pag. 118-124)



"Ogni atto artistico e letterario, ogni opera d'arte. Ogni romanzo reca i segni di ciò che accade intorno, in un modo o nell'altro. I tempi in cui viviamo sono condizionati dalla morte dei fondatori, dei “capostipiti”, dai genitori che se ne sono andati lasciandoci con problemi enormi. Noi siamo gli eredi delle loro allucinazioni, ormai ci rendiamo conto che la crescita, lo sviluppo, il consumismo, il prodotto interno lordo, tutto questo ci fa correre su un binario morto, e ci chiediamo se lungo la corsa vedremo uno scambio, e chi scenderà ad azionare la leva.

Stiamo cercando di capire che fare, ma i nostri pensieri sono ancora prigionieri dei vecchi frames concettuali, il che significa che anche le nostre parole sono prigioniere. Pensiamo ai movimenti che chiedono un calo di produzione e consumi. Chiamano questo processo decrescita. Decrescita non è nemmeno un antonimo, è una mera negazione del concetto opposto, ed in effetti ogni volta che diciamo “decrescita” diciamo anche “crescita”, e “crescita” è sentita come una parola buona, d'istinto la associamo a cose e positive, processi che sono necessari e benigni, come la crescita dei nostri figli, o la crescita di piante che possiamo mangiare. “Decrescita” non è una parola efficace, non funziona.

I nostri pensieri e vocaboli sono ancora prigionieri. Per anni abbiamo espresso i concetti in cui credevamo semplicemente aggiungendo prefissi come de- o post- (per esempio “postmoderno”) ai concetti in cui credevamo più. Sapevamo soltanto di essere post-qualcosa.

.....

La letteratura postmodernista si è a lungo concentrata sui “postumi” seguiti alla sbornia del moderno. Gli autori hanno sviluppato un tipo di ironia che all'inizio aveva un valore critico, e io sono contento che quei libri siano stati scritti, amo alcune di quelle opere, penso che dobbiamo tenerci il buono e portarcelo appresso lungo la via, scartando quello che non ci serve più; oppure se preferite un'altra metafora, dobbiamo ricostruire su quelle fondamenta, ma per ricostruirci sopra dobbiamo prima demolire la casa squinternata che c'è adesso.

Il problema del postmodernismo è che ha generato un esercito di seguaci e imitatori, e presto si è ubriacato di sé stesso, si è intossicato della propria ironia, del proprio sarcasmo e disincanto. L'ironia si è fatta sempre più fredda e anaffettiva, il che era perfetto per il nuovo spirito dei tempi: il disincanto ha invaso e impregnato l'intero paesaggio artistico e mediatico, finché ad un certo punto, probabilmente negli anni Ottanta, è diventato il sentimento dominante della cultura occidentale. Nulla andava più preso sul serio. Se prendevi qualcosa sul serio facevi la figura del seccatore.



Vorrei citare lo scomparso David Foster Wallace. Questo è uno stralcio da una famosa, classica intervista …...



Questi ultimi anni dell'era postmoderna mi sono sembrati un po' come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po' va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l'autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre e le cose cominciano a rompersi, a rovesciarsi e ci sono bruciature di sigarette sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così piano piano cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po' di ordine, cazzo.... Non è una similitudine perfetta, ma è come sento la mia generazione di scrittori intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L'opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c'è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.



Da quell'intervista sono passati quindici lunghi anni, Wallace non è più tra noi e finalmente capiamo quanto avesse ragione. Noi dobbiamo essere i genitori, i capostipiti, i nuovi fondatori. Abbiamo bisogno di riappropriarci di un senso del futuro, perché sotto il sole sta accadendo qualcosa di radicalmente nuovo. È un pericolo senza precedenti, è un grosso problema e il disincanto non è la soluzione migliore.



A mio avviso il dispotismo dell'ironia ha prodotto una sindrome sociale affine all'asimbolia del dolore. L'asimbolia del dolore è una sindrome neurologica causata da un danno alla corteccia insulare del cervello. Non rispondi al dolore in modo emotivo, o dai la risposta emotiva sbagliata: ti metti a ridere.

Noi ridiamo perché la risata è utile dal punto di vista dell'evoluzione. Ridere a che fare con il sollievo dopo un falso allarme. Quando qualcuno ti racconta una barzelletta, la tensione cresce e sei sempre più curioso, vuoi sapere come va a finire. Le migliori barzellette ti tengono all'erta per quello che sembra essere un tempo lunghissimo, e il tuo cervello si fa sospettoso, e alla fine ti trovi sulla difensiva, ma poi la battuta finale dà alla storia una torsione inaspettata, la tensione si scarica e ridi.

È anche il motivo per cui il solletico fa ridere: all'improvviso qualcuno fa per toccarti, istantaneamente ti metti sulla difensiva, infatti irrigidisci i muscoli, ma poi quella persona non ti fa davvero male, si limita a toccarti e stimolarti in un punto insolito, e allora il tuo cervello dice: “era un falso allarme!”, e ti metti a ridere.

Una risata segnala che è tutto a posto, significa: “Non c'è da preoccuparsi”. È probabile che il ridere sia evoluto da un verso ritmato che i nostri antenati emettevano dopo un falso allarme. Il resto del branco lo udiva e tutti si sentivano sollevati: non c'era bisogno di fuggire o di combattere. Ovviamente, quando il pericolo era reale e qualcuno o qualcosa procurava autentico dolore, il cervello dava la corretta risposta emotiva, non c'era sollievo, nessuno rideva, tutti fuggivano o combattevano.

Ma quando soffri di asimbolia del dolore, quella parte del cervello non funziona più, il circuito non si chiude, niente ti dice che questa volta è vero, che non si tratta di un falso allarme, e finisce che dài la risposta emotiva sbagliata. Ti sfondo la faccia a calci, e tu ridi.

Negli anni Ottanta e Novanta una gran parte della cultura occidentale ha iniziato a confondere dolore e solletico. Pian piano abbiamo perso la facoltà di distinguere un dolore vero da uno falso: sentivamo o eravamo testimoni di grandi dolori, e reagivamo ridacchiando. L'ironia era ovunque. Nel frattempo era caduto il muro di Berlino, l'Occidente aveva vinto e c'era persino che era finita al storia, e durante gli anni Novanta tutti ridacchiarono ancora di più. Certo, non nell'ex Iugoslavia o in Ruanda, ma nel cuore dell'impero molte persone, soprattutto gli artisti, erano molto cool e ironiche e sghignazzanti e intente a farsi l'occhiolino a vicenda.

I nostri compagni umani sono neuralmente programmati per associare le risate ai falsi allarmi, quindi conclusero che non c'era pericolo...



… poi scoppiò la bolla della cosiddetta “New Economy”, e subito dopo ci fu l'11 settembre, poi la cosiddetta “Guerra al Terrore” e l'invasione in Iraq, poi arrivarono i bombaroli kamikaze a Madrid e nel Tube di Londra, e adesso l'economia globale sta franando, ma in molti continuano a non capire quanto la situazione sia pericolosa, e intanto il ghiaccio dei poli si scioglie, il petrolio sta arrivando al picco di estrazione prima del previsto, e si stanno esaurendo le scorte di metalli, nel giro di pochi decenni niente più rame, niente più ferro, niente più cadmio … .

E' chiaro che essendo io un romanziere e amando la letteratura (le due cose non vanno sempre insieme), mi interessa, vedere come la mia professione possa evolversi di fronte a questi pericoli. Ciò che mi preme è trovare nella letteratura di oggi un diverso approccio etico allo scrivere, oltre il disincanto di ieri. Una piena assunzione di responsabilità difronte a quel che accade su scala planetaria. Ed essendo un romanziere italiano, sono ancora più interessato a vedere cosa accade nella letteratura di quel paese. Si comincia sempre da dove ci si trova, e l'Italia è sempre un posto interessante da cui cominciare, un notevole laboratorio (tanto per usare un eufemismo). Di recente ho trovato molti segnali interessanti nella letteratura italiana, ne ho scritto e ne ho discusso, è in corso un dibattito ed è per questo che sono qui.



In Italia si usa di frequente un'espressione: “l'anomalia italiana”. Vi sono serie ragioni storiche per cui l'Italia è così diversa dal resto d'Europa e la logica della vita sociale appare impenetrabile o addirittura inesistente. Farò conto che tutti in questa sala siano al corrente di tali ragioni, o almeno alcune. C'è di mezzo la Guerra fredda, eccetera. Diciamo solo che dopo la caduta del Muro per l'Italia iniziò una fase tumultuosa che va avanti ancora oggi. Nel 1993 crollò il vecchio establishment politico, i più grandi partiti si dissolsero e vi fu un improvviso liberarsi di energie incontrollabili.

Nemmeno nei più scatenati sogni ad occhi aperti la sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta aveva previsto alcunché del genere, anche se l'esito è parso più simile a una controrivoluzione: da quei giorni lo spettro politico della società italiana si è spostato sempre più a destra."



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